“Desiderio Desideravi” – La liturgia di papa Francesco

Per tentare di mettere chiarezza tra i tanti discorsi che negli ultimi anni si stanno facendo in merito alla Liturgia, il pontefice ha pubblicato, nel giorno dei santi Pietro e Paolo una lettera apostolica dal titolo “DESIDERIO DESIDERAVI”

Forse uno dei motivi (indubbiamente non il solo) che ha spinto il santo padre a scrivere queste precisazioni sulla Liturgia lo indica lui stesso verso la fine del documento, quando al n. 65 esorta «Abbandoniamo le polemiche». Indice che anche alle sue orecchie è giunto il lamento di tanti cattolici che da tempo criticano le liturgie che vengono celebrate dai propri parroci o vescovi. Voci che si aggiungono alle storiche pretese di adottare vecchi riti con tanto di messale in latino.

Questa volta però, a mio modesto avviso, Francesco non utilizza la sua ormai nota capacità di vedere oltre, di scombinare lo status quo, di spronare le nostre membra stanche e di svegliare le nostre coscienze. Non so perché ma in questa lettera, il papa ci fa nuovamente assaporare quel linguaggio, che lui stesso aveva accantonato, proprio di una vecchia Chiesa, di gran parte della gerarchia, che, come era abitudine in passato, non vedeva altra strada se non quella di “mettersi contro” le “tentazioni del mondo”; cede dunque alla lusinga dell’apologia che non tiene conto del fatto che le categorie di pensiero sono nel frattempo cambiate; rischiando così di frapporre, tra il magistero e il popolo di Dio, dei muri anziché i ponti, a lui tanto cari.

Ovviamente nelle pagine della lettera sono presenti osservazioni interessanti per capire meglio e vivere più intensamente la liturgia, ma quello che vorrei qui sottolineare sono quelli che personalmente considero dei “passi falsi”, delle prese di posizione che rischiano di essere interpretate non come risposte alle sempre più forti e pressanti richieste del popolo cristiano circa la liturgia, ma come diktat, riti già codificati e pertanto immutabili e ai quali i parroci, i vescovi e tutti i fedeli devono assolutamente ritornare a assumere come punti inderogabili e imprescindibili.

«Sogno una chiesa missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (Evangelii gaudium, n. 27)

Con queste poche righe (riportate al n. 5 della lettera), qualche anno fa, Francesco ci aveva lasciato intuire che la via del cambiamento (seppur tortuosa e lunga) era stata finalmente intrapresa. Purtroppo, invece, il pontefice in questo documento sulla liturgia, torna su temi che forse molti di noi pensavano potessero essere prima o poi superati e anziché riformarli, li ripropone con tutto il loro linguaggio ormai desueto e con tutti i loro concetti che buona parte della moderna teologia sta contestando da tempo in quanto non più rispondenti ai paradigmi del mondo moderno.

Il mancato passaggio dal tema del “sacrificio” al tema del “dono”.

Non nego un certo dispiacere nel trovare, all’interno della lettera apostolica, affermazioni come «l’esecuzione della sua condanna [di Gesù] a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre» o quando utilizza il temine «sacrificio eucaristico» e ricorda che «non siamo certo degni di entrare nella sua casa». Il tema del sacrificio torna anche al numero 60 quando riporta «ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te» o le parole del celebrante «dal mio peccato rendimi puro». E ricorda infine come l’appuntamento settimanale della messa ci permette di «fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre». Sembra anche cadere in contraddizione nel momento in cui, dopo aver chiaramente richiesto una piena e ferma adesione ai riti disposti dal magistero, ricorda che «l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito», quello stesso Spirito che in altri paragrafi del documento (uso una parola forte) lo si mette a tacere non dandogli spazio all’interno di una celebrazione già codificata in ogni sua parte.

Pone addirittura l’accento sul fatto che il prete è «come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele» quasi a voler sottolineare che l’amore di Gesù non possa riscaldare il cuore di ognuna/o di noi senza l’intermediazione presbiteriale.

Sono tanti i teologi che hanno provato a chiarire come dovrebbe essere intesa e vissuta la liturgia in questo nostro periodo storico, ma per non allargare troppo questo articolo e il conseguente campo del ragionamento, mi soffermo soltanto su di una considerazione di Ortensio da Spinetoli che nel suo libro “L’INUTILE FARDELLO” ricorda la mutazione avvenuta di quanto raccontato nel Vangelo, sottolineando che «dal piano storico si passa a quello sacro: la scena del Golgota viene a ricollocarsi all’interno del santuario, il tavolo attorno al quale Gesù si era trovato con i discepoli si trasforma in un altare, e i riti che erano rivolti ai discepoli affinché non dimenticassero il loro impegno per il bene delle moltitudini, vengono elevati verso l’alto, verso l’Altissimo, per placarlo dei torti ricevuti dagli uomini e ottenere il suo perdono e i suoi favori.» e ancora, «Gesù non ha costituito né fissato spazi sacri; né tempi sacri, né rituali o cerimonie vincolanti ad un culto religioso; né ha organizzato cerimonie per consacrare sacerdoti o qualsiasi altra forma di personale religioso

Emerge dunque ancora una volta l’urgenza di ripensare in modo onesto e responsabile le nostre liturgie affinché possano riconquistare il bellissimo valore che Gesù stesso aveva dato quando ai suoi discepoli confidava di aver «tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15)

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