IL CORAGGIO E LA PAURA

Quando la paura può fare emergere la verità su noi stessi.

Il nuovo libro del teologo Vito Mancuso edito da Garzanti.

Questa volta, anziché scrivere il mio pensiero sul libro, vi riporto alcune riflessioni che lo stesso autore ha recentemente postato sulla sua pagina facebook:

In questi casi la forza del coraggio è eteronoma, proviene da qualcosa di esterno: gli altri, il successo, il piacere, il potere, compresi la religione, la cattedra, la pubblicazione del libro, l’esposizione delle proprie opere, la missione umanitaria. È chiaro, noi siamo relazione, e quindi non possiamo prescindere dal riconoscimento sociale, ma un conto è essere soddisfatti del lavoro svolto e averne gratificazioni sociali ed economiche, un altro è dipendere unicamente dal riconoscimento altrui e fare tutto in funzione di esso. Nel primo caso la fonte del coraggio è autonoma, nel secondo è eteronoma, e come tale in balìa degli altri e soggetta all’instabilità.

Pregare viene dal verbo latino precari da cui anche l’aggettivo «precario». Ovvero: chi non ha problemi non prega, chi è nella precarietà prega; le parole, come sempre, non mentono. A sua volta l’etimologia del verbo pensare viene da pesare: chi pensa pesa, soppesa, pondera, dà un pondus, un peso, alla realtà, non trovando il quale essa risulta imponderabile. Che peso ha la realtà? Prendiamo la natura: che peso ha? Qual è la natura della natura? Domandarselo significa fare della mente una bilancia che pondera i vari argomenti a favore del senso o del non-senso della natura, del suo essere madre oppure matrigna. Lo stesso vale per la vita, la morte, l’amore, la bellezza, il diritto, il divino e chissà che altro: che peso hanno tutte queste cose? E che peso dare loro nella nostra esistenza? Porsi queste domande significa pensare, pensare al senso della vita. Ma perché allora Wittgenstein scriveva che «pregare» è pensare al senso della vita? Il rigore del pensiero esige che si valutino i singoli argomenti in modo obiettivo, senza sbilanciarsi a favore del bene o del male, piuttosto collocandosi «al di là del bene e del male». Noi però non siamo solo freddo pensiero: siamo anche passione, desiderio, volontà. E quando in noi si afferma questa dimensione calda, il pensiero non è più puro ma diviene di parte, parteggia, si fa partigiano. Chi prega è un partigiano della realtà: del suo senso e della sua carica positiva. Se la mente di chi pensa è una bilancia che pesa in perfetto equilibrio, la mente di chi pensando prega è una bilancia che pende a favore del bene rispetto al male, della vita rispetto alla morte, del senso rispetto all’assurdo. Per questo la preghiera è all’imperativo e al congiuntivo

“Per convivere con la paura è fondamentale la saggezza e circondarsi del bello”

«Lo spazio vuoto che è in noi ci consegna a volte la strana condizione di essere «due in uno». Ognuno di noi è uno, ma è anche due. È cioè un sé, ma è anche la possibilità di un ritorno su di sé, quando la propria energia psichica dispersa su cose e persone là fuori viene richiamata e concentrata qui dentro. Si tratta di quel movimento assai prezioso detto concentrazione, riflessione, raccoglimento, rientro in se stessi. Il passaggio dalla dispersione alla concentrazione genera l’esperienza del due in uno».

«Hannah Arendt ha scritto che il motivo più profondo che la tratteneva dal comportarsi male commettendo ingiustizia era la consapevolezza che, facendo il male, sarebbe poi stata costretta a vivere con un detestabile delinquente, cioè con se stessa quale sarebbe diventata in seguito al male commesso, e vivere tutta la vita con una persona simile sarebbe stato per lei insopportabile: «Se non sono d’accordo con altra gente, posso alzare i tacchi e svignarmela; ma non posso svignarmela da me stessa […]. Ecco perché allora è meglio patire il male che farlo: perché se facessi il male, sarei condannata a vivere assieme a un malfattore per il resto dei miei giorni, senza un attimo di tregua»

«Sarebbe auspicabile che ognuno si ponesse davvero la domanda sulla qualità della sua umanità cercando sinceramente la risposta. E la risposta emergerà analizzando i propri desideri e le proprie aspirazioni. Era quello che pensava anche Gesù: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. E la più pura aspirazione dell’anima umana è la speranza»

È la Vita la divinità primordiale, ma noi lo stiamo dimenticando. Stiamo riducendo la Vita a una specie di centro commerciale in cui ordinare beni e prodotti con un clic. Il mare di Poseidone? È diventato una riserva di cibo e petrolio e una superficie da solcare con le barche. Le foreste di Artemide? Una riserva di legna da abbattere per seminare la soia con cui nutrire il bestiame da macellare al più presto per farne hamburger. L’arte di Apollo? Un grande business ricolmo di finzioni che valgono solo per la capacità momentanea di vincere la noia e di sorprendere con l’ennesima profanazione. L’amore di Afrodite? Un turpe mercato che si ciba di corpi, spesso anche di bambini. E il denaro come unico dio, osservando, in questo sì, un purissimo monoteismo. Qualcuno sostiene che la Natura, espressione suprema della Vita, si sia ribellata a questa devastazione e ci stia prendendo alle spalle, anzi ai polmoni, così da riportarci nella condizione di capire di nuovo che è lei a essere più forte e che noi la dobbiamo rispettare con religioso timore. È così?

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