LA PAURA NON E’ SEMPRE NEGATIVA
LA PAURA NON E’ SEMPRE NEGATIVA E IL CORAGGIO NON E’ SEMPRE POSITIVO.
E’ da poco uscito un nuovo libro del teologo Vito Mancuso per l’editore Garzanti dal titolo “Il coraggio e la paura“
Esiste un diffuso pregiudizio riguardo alla paura e al coraggio che occorre riconoscere e superare, ovvero che la paura, la cosa nera, sia sempre qualcosa di negativo, e il coraggio, la cosa rossa, sempre qualcosa di positivo. La realtà invece è diversa.
La paura è un dio, e dicendo dio non intendo una divinità che sta lassù nel cielo e vive nei secoli dei secoli; intendo piuttosto una forza che sta quaggiù in terra, precisamente dentro di noi, e che però è più forte di noi e che ci stringe, secondo il senso antropologico e culturale del divino su cui mi soffermerò più avanti. La paura ci afferra, il respiro viene mozzato, e se essa permane si genera angoscia che può persino produrre terrore, il livello più alto della scala della paura, come in seguito argomenterò.
Non sempre però la paura è negativa; anzi, saputa interpretare e controllare, essa può risultare positiva, qualche volta molto positiva, ci può salvare la vita. Senza paura si ha temerarietà, ovvero ignoranza che produce sconsideratezza, in quanto si ignorano le preziose informazioni trasmesse dalla paura con tutte le conseguenze che ne derivano, talora mortali; e chi ne vuole conferma chieda alle montagne, ai mari, alle strade. La paura è un messaggio della vita: se fossimo nell’antica Grecia diremmo che è un’inviata del dio messaggero, Hermes, che gli antichi romani chiamavano Mercurio, e come tale essa è ermeneutica e mercuriale.
Lo stesso vale per il coraggio, la cosa rossa. Esso non è il contrario della paura, perché il contrario del coraggio è la viltà, la codardia, la vigliaccheria. Il coraggio anzi presuppone la paura, nel senso che si può essere coraggiosi solo sapendo cos’è la paura e superandola mediante l’azione del cuore detta per l’appunto coraggio. Che il coraggio sia associato al cuore lo indica la parola, formata dal termine latino cor, cordis, «cuore», e dal suffisso -aggio che la nostra lingua utilizza per indicare l’azione svolta dal sostantivo a cui lo applica (come per esempio accade in spia-spionaggio, canoa-canottaggio e tanti altri casi). Il coraggio è l’azione del cuore che vince la freddezza della mente toccata dall’emozione negativa della paura. La mente cosciente fa il suo mestiere e infonde paura; il cuore, in quanto mente cosciente e in più consapevole, fa il suo mestiere e trasforma la paura in coraggio. Il coraggio è legato al cuore perché quando si esercita si percepisce un calore speciale nel petto, in quella zona centrale del nostro essere dove le correnti fredde dei ragionamenti razionali e le correnti calde delle passioni viscerali trovano la giusta miscela e formano il calore vitale, quella forza primigenia e preziosissima che Spinoza chiamava conatus essendi, «desiderio di esistere», e Bergson élan vital, «slancio vitale», e che noi possiamo chiamare anche voglia di vivere, ottimismo, fiducia, speranza, sorriso, respiro profondo.
Il coraggio esprime forza, e la logica dell’essere è la forza aggregante costruttrice di relazioni, per cui parlare del coraggio significa toccare il centro della vita e della sua dinamica.
Se il mondo esiste è perché anche la natura ha avuto e ha, a suo modo, coraggio; se non l’avesse, essa sarebbe solo natura naturata, cioè statica, ferma, in un certo senso natura morta, mentre la natura, grazie alla sua forza interiore, è anche e soprattutto natura viva, natura naturante, cioè dinamica, evolutiva, progressiva, tant’è che dalle polveri primordiali, che oggi chiamiamo quark, sono potuti sorgere la luce della mente e il calore del cuore. È grazie al coraggio che pervade l’essere. Facciamo parte di un grande romanzo epico che si va scrivendo ancora oggi, dentro e fuori di noi, e il suo inchiostro si chiama coraggio: il coraggio in quanto forza dell’essere. Esercitato dentro di noi, il coraggio è una virtù; come vedremo, una virtù cardinale. Ora però facciamo attenzione alle parole perché esse, soprattutto quando sono antiche, racchiudono un messaggio prezioso. Lo riconosceva anche Wittgenstein: «Quanto più una parola è vecchia, tanto più va a fondo». Non vorrei annoiare con il latino e con il greco, ma per favore seguitemi. Coraggio in latino si dice virtus, sostantivo che significa però anche virtù, come ad affermare che la virtù per eccellenza è il coraggio, così per lo meno pensavano gli antichi romani che anzitutto sulla guerra di conquista avevano costruito la loro civiltà. In greco coraggio si dice andréia, virtù si dice areté. Ora analizziamo ognuno dei tre termini: 1) virtus è strettamente legato a vir, che in latino significa «uomo» nel senso di «maschio» e di «guerriero»;2) andréia deriva da anér, andrós, che in greco ha esattamente il medesimo significato di vir: «uomo maschio guerriero»; 3) areté ha una significativa assonanza con Ares, il dio della guerra, per cui anche per gli antichi greci la virtù per eccellenza, almeno nella fase originaria della loro civiltà, è quella guerresca, come emerge in modo evidente negli eroi omerici. Ecco per esempio le parole di Achille a Ettore prima del duello finale: «Ettore, tu, maledetto, non parlarmi di accordi! Come non esistono patti affidabili tra i leoni e gli uomini, né possono lupi ed agnelli avere cuore concorde, ma sempre gli uni degli altri vogliono il male, così non possiamo tu ed io essere amici, né ci saranno patti tra noi, prima che uno dei due caduto sazi di sangue Ares, il guerriero armato di scudo»
Leggi l’intervista a Vito Mancuso su MetroNews.