LA RISURREZIONE DI LAZZARO

Per questa domenica di Quaresima nella quale la liturgia ci offre il brano evangelico della risurrezione di Lazzaro, voglio condividere con voi un mio lavoro che offre qualche indicazione su come leggere questi versetti del capito 11 di Giovanni e (cosa un po’ inusuale) un accostamento con la visione “atea” che il premio nobel per la letteratura Dario Fo ha proposto, anni fa, nella sua famosa opera teatrale “Mistero Buffo“.

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Vangelo di Giovanni “La risurrezione di Lazzaro” – Capitolo 11, versetti 1- 44

La “risurrezione di Lazzaro” è l’ultimo dei miracoli compiuti da Gesù che vengono narrati da Giovanni ed è l’episodio che apre la parte finale di quello che viene solitamente definito come il suo ministero pubblico[1].

Questo “miracolo” rientra nella nutrita serie di interventi divini, presenti nei Vangeli, che alcuni esegeti, come Gamberini, suddividono in «diciannove guarigioni (di cui 3 rianimazioni), sei miracoli di natura e tre epifanie.»[2]

L’intervento che Gesù compie sul corpo senza vita del suo amico[3] di Betania viene quindi inserito fra le tre “rianimazioni” sopra indicate, assieme a quella della figlia di Giairo[4] e del figlio della vedova di Nain[5].

In questo quadro generale dobbiamo sottolineare come gli autori dei quattro vangeli non ricorrono mai al termine “miracolo” se non Matteo che una volta usa la parola thaumasia «che significa “meraviglie”, “opere meravigliose” (Mt 21,15), e dunque si avvicina all’espressione italiana “miracolo”, che viene da mirari (meravigliarsi) e significa “una cosa meravigliosa”, che desta stupore.»[6]

Per parlare di ciò che noi chiamiamo “miracolo” i Sinottici impiegano il termine dýnamis che può essere tradotto con “atto di potenza” e che meglio rende l’idea che siamo in presenza di una forza, che, in questo contesto, proviene da Dio e agisce in Gesù. Questo termine è presente ben 119 volte nel Nuovo Testamento e mai lo si ritrova in Giovanni[7] che invece utilizza i termini sȇmeia (segni) ed erga (opere).

Sembra quindi che Giovanni, con l’utilizzo di questi due termini (segni/opere) voglia dare un maggiore risalto all’indicazione teologica che «il vero senso di un evento miracoloso non si trova nel fatto in sé stesso, ma nella realtà che è possibile scoprire al di là di esso.»[8]

«Il cristiano che legge i racconti dei miracoli non deve tanto rimanere ammirato dalla potenza del suo Dio, quanto della sua carità, che splende in tutto il creato»[9]. Siamo di fronte a un Dio che opera per il bene dell’uomo e che «oltre a recare la buona notizia ai poveri, si preoccupa di ridare la vista ai ciechi, la guarigione agli zoppi, l’udito ai sordi, la vita ai morti, dimostrando che il Regno non è un’affermazione di potenza ma il luogo della felicità di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.»[10]

Come abbiamo già precisato, Giovanni pone la narrazione di questo episodio al termine dell’attività pubblica di Gesù e prima della descrizione «degli eventi dell’ultima Pasqua, nel cui arco temporale si contestualizza tutto il resto del vangelo[11]» ma nel mezzo inserisce alcuni versetti che ci parlano dell’incontro sinedriale e della conseguente decisione di mettere a morte il galileo, quasi a voler sottolineare che l’episodio di Lazzaro costituisca la causa scatenante della condanna a morte del nazareno, da parte dei sommi sacerdoti e dei farisei[12].

Poiché lo scopo ultimo di questo elaborato non è quello di proporre un’esegesi dettagliata dell’intero racconto ci limitiamo ad estrapolare alcuni spunti che a nostro giudizio possono risultare interessanti e stimolanti per un ulteriore approfondimento teologico e spirituale.

Proviamo quindi a sottolineare i versetti che ci possono apparire come dei “segnali” a conferma del fatto che Giovanni non ha unicamente l’intento di riportare un evento storico, ma piuttosto una narrazione teologica. L’autore del quarto vangelo affronta il tema della morte e come il cristiano deve intendere questo evento alla luce dell’insegnamento che Gesù stesso ci offre. Tutto il racconto «sembra costruito attorno al motivo del progressivo avvicinamento fisico, emotivo e relazionale di Gesù all’esperienza e al luogo della morte: quella dell’amico, certamente, ma contemporaneamente anche la propria.»[13]. Ricordiamo, infatti, che a partire dal successivo capitolo 12 inizia la narrazione degli eventi pasquali e nello stesso capitolo 11 Giovanni ci mostra come anche tra gli apostoli si stava insinuando l’idea della morte prossima del loro maestro.[14]

Leggendo il testo preso in esame, la prima “anomalia”, che ci spiazza e contemporaneamente ci invita a ricercare una lettura diversa del testo, che non sia quella “di superficie”, la riscontriamo nella reazione di Gesù nel momento in cui viene raggiunto dalla notizia che il suo amico Lazzaro è ammalato e le sue sorelle lo mandano a chiamare[15], possiamo supporre, umanamente preoccupate per la sorte del proprio fratello. Ci saremmo aspettati che Gesù lasciasse tutto quello che stava facendo in quel momento per soccorrere il suo amico per il quale, è lo stesso Giovanni che ce lo fa sapere, nutriva un affetto particolare[16]. Contrariamente a quelle che potrebbero essere le nostre previsioni, al versetto 6 scopriamo che Gesù «quando sentì che [Lazzaro] era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava» e che pertanto arrivò nel villaggio di Betània ben quattro giorni dopo, quando Lazzaro era ormai morto[17].

Continuando nella lettura del brano, scopriamo che questo “ritardo” non viene gradito neanche dai familiari del defunto e spinge «Marta a investire Gesù con un rimprovero nel quale esprime tutta la sua pena per la morte del fratello e la delusione per il comportamento del suo maestro, assente nei momenti di maggior bisogno: “Signore, se tu fossi stato qui, non sarebbe morto il fratello mio!”[18]

Pare evidente che «il tempo interposto tra l’ascolto della notizia relativa alla malattia dell’amico e la decisione di raggiungerlo dice quantomeno che Gesù non teme che le vicende seguano il loro corso.»[19] e di conseguenza appare più chiaro che il significato stesso di “morte” acquista con Gesù un valore diverso che è quello che lo stesso evangelista vuol evidenziare con la narrazione di questo episodio: «Gesù è la resurrezione e la vita: è il vertice del racconto. In quanto Figlio dell’uomo, egli ha il potere (exousìa) sulla vita e sulla morte.»[20] E Gesù cerca di tranquillizzare la sua amica Marta ricordandole «Io sono la resurrezione e la vita! Chi crede in me anche se muore vivrà e chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.»[21] Quanti, infatti, accolgono Gesù «ricevono da lui il dono dello Spirito (Gv 7,39), la stessa vita divina, e chi ha lo Spirito non fa esperienza alcuna della morte.»[22]

Un ulteriore elemento lo possiamo riscontrare, dopo che Gesù ha pronunciato l’universalmente noto imperativo «Lazzaro, vieni fuori!»[23] , nel particolare evidenziato da Giovanni che specifica come il morto esca dalla tomba «con i piedi e le mani avvolti in bende»[24]. La valenza teologica di questa sottolineatura posta dall’evangelista la cogliamo con l’aiuto del commento del biblista Alberto Maggi il quale ci ricorda che «questa maniera di seppellire i morti era sconosciuta tra gli ebrei, che lavavano il cadavere e l’avvolgevano in un lenzuolo. La descrizione dell’evangelista ha pertanto valore simbolico il morto è stato legato come un prigioniero, catturato dalla morte»[25] e quindi si evidenzia l’insegnamento teologico dell’evangelista che mira a far comprendere non tanto (non solo) che Gesù fa tornare in vita un morto ma che se non ci affidiamo a Dio, quale vera fonte di vita, restiamo imprigionati dall’idea sbagliata che ci facciamo della morte; dobbiamo quindi liberarci, come Lazzaro, dai lacci della morte perché Gesù l’ha sconfitta definitivamente.[26]

Proseguendo nella lettura, ora che il “miracolo” si è concluso e il morto è stato riportato in vita, ci si potrebbe aspettare almeno un versetto dedicato alla reazione festosa delle sorelle, di tutti i presenti e dello stesso Gesù. Invece, e qui siamo al terzo elemento, l’evangelista riporta «l’ultimo sorprendente comando che Gesù impartisce» e che «è la chiave di comprensione di tutto l’episodio».[27] Anziché invitare i parenti più cari di Lazzaro ad avvicinarsi a lui per festeggiare l’evento miracoloso, Gesù invita i presenti a sciogliere il morto dalle bende e a lasciarlo andare[28]. Inusuale anche il fatto che Giovanni non riporti nessuna reazione da parte di Lazzaro; né una parola di ringraziamento, né un gesto di condivisione della sua gioia con le sue due sorelle. Il protagonista principale della storia (dopo ovviamente Gesù) scompare stranamente senza intervenire in alcun modo.  Con la sua richiesta di sciogliere il morto, l’evangelista ci insegna che Gesù invita la stessa comunità a slegarsi; è lei che «si libera dalla paura della morte e comprende finalmente che Lazzaro era già con il Padre: era il morto che doveva essere sciolto dai lacci della morte.»[29] «L’evangelista invita la comunità cristiana a un radicale cambio di mentalità, per passare dalla concezione giudaica della morte a quella cristiana, dalla risurrezione dell’ultimo giorno a una qualità di vita che è già quella dei risorti»[30] e quindi ricorda anche a noi donne o uomini del XXI secolo che dobbiamo fare come la comunità di Betania che «ha compreso la qualità di vita comunicata da Gesù e ha perso così la paura della morte.»[31]


[1]  «Il racconto della risurrezione di Lazzaro, ultimo dei miracoli-segni compiuti da Gesù, apre l’ultima parte del vangelo dedicata al suo ministero pubblico (capp. 11-12)» (M. Nicolaci, Vangelo secondo Giovanni, in R. Virgili (a cura di), I Vangeli, Ancora Editrice, Milano 2015, p. 1497)

[2]  P. Gamberini, Questo Gesù, pensare la singolarità di Gesù Cristo, EDB, Bologna, 2005, p. 82

[3]  «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato» Gv 11,11

[4]  Mc 5, 21-43 ; Mt 9, 18-26 ; Lc 8,40-56

[5]  Lc 7,11-17

[6]  La Civiltà Cattolica, 1993, IV, 529-541

[7]  Temi teologici della Bibbia, R. Penna, G. Perego, G. Ravasi (a cura di), Edizioni San Paolo, Torino, 2010. 

[8]  Ibid.

[9]  O. Da Spinetoli, Gesù di Nazaret, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA), 2005, p. 137.

[10]  Ibid.

[11]  M. Nicolaci, Vangelo secondo Giovanni, in R. Virgili (a cura di), I Vangeli, Ancora Editrice, Milano, 2015, p. 1509.

[12]  «Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.» Gv 11,53

[13]  I Vangeli, cit., p. 1501.

[14]  «Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse altri altri discepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”» Gv 11,16

[15]  «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”» Gv 11,3

[16]  «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» Gv 11,5

[17]  «Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro» Gv 11, 17

[18]  A. Maggi, La follia di Dio, il Cristo di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi, 2010, p. 130.

[19]  I Vangeli, cit., p. 1504.

[20]  Y. Simoens, Evangelo secondo Giovanni, Edizioni Qiqjon, Magnano (BS), 2019, p. 318.

[21]  Gv 11,25-26

[22]  A. Maggi, L’ultima beatitudine, cit., p. 61.

[23]  Gv 11, 43

[24]  Gv 11, 44

[25]  A. Maggi, La follia di Dio, il Cristo di Giovanni, cit., p. 133.

[26]  «Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo» 2Tm 1,10b

[27]  A. Maggi, La follia di Dio, il Cristo di Giovanni, cit., p. 134.

[28]  «Gesù disse loro: Liberatelo e lasciatelo andare» Gv 11,44

[29]  A. Maggi, L’ultima beatitudine, Garzanti, Milano, 2017, p. 65.

[30]  Ibid. p. 66.

[31]  Ibid. p. 66.

Mistero Buffo “La risurrezione di Lazzaro” – Dario Fo

Nel 1969, uno dei più grandi attori e autori di teatro italiani, Dario Fo, insignito poi nel 1997 del prestigioso premio Nobel per la letteratura, metteva in scena per la prima volta, “Mistero buffo” forse il più conosciuto fra i suoi lavori.

L’opera era composta da una serie di monologhi ai quali, negli anni successivi, se ne sono aggiunti altri, che prendevano spunto dalla tradizione popolare delle giullarate medievali, ma che in parte attingevano anche alla cultura religiosa cattolica, a figure storiche come Bonifacio VIII o a racconti dei Vangeli canonici e apocrifi.

Lo spettacolo ottenne un grande successo e vide centinaia di repliche in ambienti “informali” come palazzetti dello sport, chiese sconsacrate, locali cinematografici, balere, fino a quando, otto anni dopo la Rai pensò di proporlo al cosiddetto grande pubblico.

Questa operazione portò indubbiamente a una rapida diffusione del lavoro di Fo e di sua moglie Franca Rame, ma accese le polemiche di una parte della gerarchia ecclesiastica e del mondo politico legato alla Democrazia Cristiana che lo riteneva irrispettoso della religione e in particolar modo della persona del papa Paolo VI,  che una lettura di parte poteva vedere rappresentato (e criticato) nella figura di  Bonifacio VIII.

Tant’è che all’indomani del suo apparire sulla scena televisiva[1] intervenne direttamente il vicario di Roma, il cardinale Ugo Poletti che inviò un telegramma di protesta  all’allora presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti per richiedere la chiusura della trasmissione[2].

Fin qui l’aspetto storico, ma, in considerazione di questa breve presentazione, come si può pensare di collegare una pericope di grande valore teologico e spirituale, come è quella della risurrezione di Lazzaro narrata da Giovanni, con lo sberleffo irrispettoso di Dario Fo e del suo “Mistero Buffo”?

La risposta la possiamo trovare nel fatto che la Bibbia ha indubbiamente influenzato, nei secoli, tanta parte della cultura laica e con essa anche le varie arti. Molti musicisti, pittori, scrittori hanno interpretato o re-interpretato passi famosi della Sacra Scrittura; nel caso di artisti credenti, la Parola di Dio è stata fonte di profonda ispirazione; per artisti atei è stata comunque una base culturale dalla quale trarre stimoli interessanti per la propria opera.

Dario Fo è vissuto in una società (quella italiana del XX secolo) fortemente intrisa di valori cristiani, ma anche permeata da una religiosità che in quegli anni stava mostrando le sue criticità non riuscendo più a rispondere in modo adeguato alle nuove richieste provenienti dal mondo in continuo sviluppo. Ricordiamo che la scrittura del testo cade proprio negli anni della cosiddetta contestazione, all’interno di quella che potremmo chiamare “cultura sessantottina”.

E’ quindi comprensibile, se non addirittura geniale (dal punto di vista artistico), riprendere il linguaggio del teatro della commedia dell’arte per parlare della difficoltà, dell’uomo e della donna della seconda metà del XX secolo, a “capire” una chiesa che era rimasta arroccata sulle sue posizioni anziché aprirsi al mondo e offrire le “risposte” di cui il mondo stesso aveva bisogno (il Concilio Vaticano II è di questo periodo).  

Questo quadro viene in qualche maniera sottinteso nelle parole usate dalla stessa commissione svedese per motivare l’assegnazione del premio Nobel di letteratura che riconosce in Fo un attore e autore che rifacendosi alla commedia dell’arte e ai giullari medioevali rende evidente come gli stessi, con la loro arte scenica si facevano gioco dei detentori del potere, di coloro che forti di una posizione sociale e culturale predominante, sfruttavano a loro piacimento i sudditi e il popolo loro sottomesso.[3]

Forzando un po’ la mano si potrebbe utilizzare, per Dario Fo, la definizione data da Michele Martelli, di «teologo della risata» perché scherzando «sulle idee di Dio delle religioni statutarie, ne faceva inevitabilmente un oggetto della sua riflessione e dei suoi pensieri. […] Fo era un ateo, come uomo e come artista, ma un ateo affascinato dal mistero del sacro: un mistero buffo […] sia perché razionalmente insondabile, inconoscibile, sia perché oggetto, nel teatro popolare e giullaresco, di rappresentazioni in chiave ironico-grottesco-satirica volte a smascherare chi strumentalizza la religione e il sacro per fare gli affari propri. […] non Dio e il divino in sé, che per altro è inconoscibile, Fo sbeffeggia, ma il dogmatismo e l’antropomorfismo religioso.»[4]

Dunque La risurrezione di Lazzaro che Fo ci presenta non ha ovviamente nulla di esegetico e non apre la nostra mente a chissà quali intuizioni teologiche, ma ha il pregio (continua ad avere il pregio nonostante siano passati cinquantuno anni) di scardinare atteggiamenti troppo “passivi” che per tanto tempo i cristiani hanno avuto nei confronti di una Chiesa che pretendeva una cieca adesione a verità di fede comunicate con parole e categorie non più valide per l’uomo e la donna di quel periodo storico.

Il racconto “La resurrezione di Lazzaro” presente in Mistero buffo, viene fatto dall’attore che interpreta contemporaneamente più personaggi che si ritrovano in un cimitero dove si è sparsa la voce che arriverà Gesù per fare resuscitare Lazzaro. Vengono descritte le scene precedenti al miracolo, dove troviamo un curioso che temendo di perdersi l’evento si presenta con largo anticipo, il custode dello stesso camposanto che chiede i soldi per l’ingresso, l’uomo che coglie l’occasione per lucrare vendendo le sedie, un allibratore che raccoglie scommesse sulla riuscita o meno del miracolo, altri personaggi comuni e un ladro che approfitta della calca per raggranellare qualcosa.

In tutta questa messa in scena giullaresca, oltre alla critica ad una chiesa monolitica di cui abbiamo già accennato, possiamo trovare anche un aspetto legato alla fede e a come l’idea dell’evento miracoloso si rifà comunque all’esigenza di sottolineare l’amore che Dio ha per l’umanità.  Lo specifica lo stesso autore che indica come tema di fondo di questa rappresentazione la satira nei confronti «del miracolistico, della magia, dello stregonesco, che è una costante di molte religioni, compresa la cattolica, il fatto cioè di esibire il miracolo come un evento soprannaturale, allo scopo di indicare che, indubbiamente, è Dio che l’ha eseguito: laddove, all’origine del racconto del miracolo, predomina il significato di amore e di attaccamento della divinità al popolo, all’uomo»[5].

L’analisi di quest’opera può inoltre stimolarci a recuperare (tralasciando ogni eventuale approfondimento che richiederebbe uno spazio non consono al contesto di questo elaborato) l’aspetto della naturale e imprescindibile esigenza di comunicare la fede adottando categorie di pensiero e linguaggi adatti alla cultura alla quale ci si relaziona. E’ questo un problema molto attuale e con conseguenze negative notevoli se non affrontato adeguatamente o, come in alcuni casi avviene, ignorato del tutto. E qui entra nuovamente in gioco l’analogia con Mistero buffo e in particolare con il linguaggio utilizzato per la sua messa in scena. Nell’opera di Fo tutti i monologhi sono recitati in una lingua che tale non è, perché si basa sulle assonanze di alcune parole, sulla mescolanza di termini provenienti da vari idiomi che l’attore sapientemente rafforza con l’uso della mimica e della gestualità. In termini tecnici questa lingua inventata viene identificata come “grammelot[6]”.

Questa particolare caratteristica presente in tutti i testi di Mistero Buffo, e non solo ne La resurrezione di Lazzaro, può farci anche riflettere sulla difficoltà di comunicazione all’interno di una società sempre più multi-etnica e multi-culturale. Difficoltà che ci porta spesso a rinunciare a compiere gesti di apertura e di accoglienza anteponendo invece sentimenti di diffidenza e di chiusura.

La diversità ha una valenza positiva e va coltivata perché può portare alla crescita, ma per relazionarci occorre “parlare la stessa lingua”.

Potrebbe allora tornare utile lo spunto che ci offre l’arte teatrale di Dario Fo e del suo Mistero buffo che in qualche maniera ci invita a fare come i suoi giullari che dovendosi esibire in paesi con lingue differenti avevano la necessità di farsi comprendere da tutti e per riuscire in questo loro compito adottavano principalmente due tecniche: adeguavano, con il grammelot, il loro “vocabolario” al tipo di pubblico che avevano davanti e rafforzavano la comunicazione verbale con l’ausilio di gesti.


[1] Mistero buffo venne trasmetto da Rai2 il 22 Aprile 1977

[2] «Interprete di innumerevoli cittadini e organizzazioni romane, esprimo dolore e protesta per dissacrante e anticulturale trasmissione televisiva» (C. Valentini, La storia di Dario Fo, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 175.)

[3] «who emulates the jesters of the Middle Ages in scourging authority and upholding the dignity of the downtrodden.» https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1997/summary/

[4]  http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-deus-ridens-di-dario-fo/

[5]  Le commedie di Dario Fo, a cura di F. Rame, Einaudi, Torino. 1977.

[6] «Il grammelot è un linguaggio scenico che non si fonda sull’articolazione in parole, ma riproduce alcune proprietà del sistema fonetico di una determinata lingua o varietà, come l’intonazione, il ritmo, le sonorità, le cadenze, la presenza di particolari foni, e le ricompone in un flusso continuo, che assomiglia a un discorso e invece consiste in una rapida e arbitraria sequenza di suoni. È dotato di una forte componente espressiva mimico-gestuale che l’attore esegue parallelamente alla vocalità. L’attribuzione di senso a un brano di grammelot è perciò resa possibile dall’interazione tra i due livelli che lo compongono, quello sonoro e quello gestuale.» (Enciclopedia Treccani on line)

[L’immagine è un particolare di una foto presente sul sito della compagnia Fo-Rame: http://compagniateatraleforame.it/ ]

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