La verità ci rende liberi

Oggi in libreria il nuovo libro del biblista Alberto Maggi e del vaticanista Paolo Rodari.

La verità ci rende liberi” è un libro-conversazione dove il teologo Alberto Maggi ci insegna che è sopratutto nei periodi di maggiore difficoltà che bisogna avere maggiore fiducia nell’uomo e nella vita.

Lo stesso co-autore Paolo Rodari, così presenta sulla sua pagina facebook il nuovo lavoro editoriale «Il Vangelo ha senso se ci rende liberi e non schiavi. Liberi di ascoltare la nostra coscienza, di volare verso il nostro compimento che non può essere imposto dall’alto ma deve seguire il desiderio che vive dentro di noi. Gesù ha scardinato la visione del Dio-padrone della vita dell’uomo e ha invitato su una strada nuova, diversa. Con Gesù, Dio non risiede più in un tempio ma dimora nell’intimo della persona. È l’uomo il nuovo tempio, il santuario dove si manifesta. Per questo l’hanno ammazzato, perché con lui il rapporto col Padre non necessita di mediatori. È per questa ineludibile novità del Vangelo che ho voluto far parlare in questo libro Alberto Maggi. Lui che da biblista conosce bene le pieghe del testo, lui che è libero di parlare di ogni argomento senza tradimenti. Nessuno meglio di lui può dispiegare questa novità e farla gustare. Per me era un lavoro necessario, un lavoro da fare. »

Ed ecco un piccolo assaggio delle domande presenti nel libro:

Oggi la Chiesa vive una pesante crisi vocazionale. I sacerdoti sono sempre meno, a molti di questi sono affidate più parrocchie. E in futuro tutto precipiterà ulteriormente. Spesso i preti sono costretti a portare da soli il peso di compiti gravosi. Francesco ha dichiarato che non ritiene lecito abolire il celibato. Non pensi che il celibato possa essere eliminato e così dare spazio al sacerdozio per le persone sposate?
Non so in passato, ma oggi il celibato è una realtà scricchiolante, fa acqua da tutte le parti. Il celibato dei preti deve essere facoltativo, come per noi frati. Per noi è una scelta (un voto), per cui, se un domani il celibato non fosse più obbligatorio, per noi religiosi continuerebbe a essere una fondamentale scelta di vita. Vivo entusiasticamente il mio celibato come una scelta di libertà, di non avere alcun legame (non solo affettivo), che possa in qualche modo limitare la libertà, perché, come dice Paolo, «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17), ed è vero anche il contrario: solo dove c’è libertà c’è lo Spirito del Signore. Più si è liberi più si permette allo Spirito di manifestarsi nella propria vita.
Per quel che riguarda la legge celibataria, inoltre, occorre tenere presenti le mutate condizioni di vita. Oggi l’età media delle persone è molto più alta rispetto ai secoli scorsi: un conto è essere fedeli a un impegno per vent’anni; un altro per quaranta o sessanta. Se tanti preti, specialmente quelli anziani, che vivono nella solitudine, avessero un affetto accanto, questo non solo non toglierebbe nulla al loro ministero, ma lo arricchirebbe e li renderebbe molto più umani e comprensivi nei confronti delle necessità delle persone.
Uno dei primi passi che la Chiesa dovrà necessariamente compiere, senza deroghe e ulteriori rimandi, sarà riparare a una tremenda ingiustizia, riammettendo al ministero quei tanti, troppi preti che si sono sposati. Erano persone valide, stimate, capaci, valenti, spesso con incarichi di alto livello nella Chiesa… poi con il matrimonio (un sacramento!) sono diventati i pària della Chiesa, gli intoccabili. Molti di questi preti colpevoli di essersi innamorati e sposati sono stati perseguitati in maniera perfida, spietata e disumana dai loro vescovi, isolati dai confratelli. Definiti con disprezzo gli «spretati», hanno vissuto la loro condizione come appestati, una vergogna, spesso in miserevoli condizioni economiche. Per cosa? Per aver seguito l’amore!
La Chiesa dovrà inevitabilmente ordinare presbiteri anche uomini e donne sposati. In tutto questo il cristianesimo non ha nulla da perdere, ma tutto da guadagnare. Più la Chiesa è umana e più si manifesta il divino che è in lei.

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I bambini abortiti che fine fanno?
Quel che ha vita non finisce e come in ogni morte anche questa non è che il passaggio a una dimensione diversa e profonda della propria esistenza, anche se questa è stata appena abbozzata. Il Creatore non può permettere che il suo progetto d’amore sulla sua creatura, scelta «prima della creazione del mondo» (Ef 1,4), venga frustrato e distrutto. Se la mano dell’uomo distrugge, quella di Dio ricrea, se la mano dell’uomo uccide, quella di Dio restituisce la vita.

Nel Catechismo la Chiesa parla ancora di scomunica per chi procura l’aborto. Perché?
Forse perché si crede che con le proibizioni, le sanzioni, i divieti, le paure, le minacce si possa frenare o fermare un atto tanto tremendo. Ma non è con le bastonate che si aiutano i feriti dalla vita, bensì con le carezze. Quando si sono presentate donne che avevano abortito – e, ripeto, si tratta di una tragedia che segna tutta la loro vita –, mai ho usato parole di rimprovero, c’è già la loro coscienza che lo fa incessantemente; mai le ho umiliate, lo sono già abbastanza per conto loro; mai le ho maltrattate, si infliggono da sole un castigo. Ho solo cercato di essere per loro la tenera carezza di Dio, ma, spesso, inutilmente. Sono donne profondamente ferite che si ritraggono alla carezza e quel che dovrebbe essere un sollievo lo sentono come sale sparso sulla piaga. È certo un mio profondo limite, ma in tanti anni di ministero non sono riuscito quasi mai a consolare una donna per quanto aveva compiuto. Si portano per tutta la vita la morte dentro, un castigo tremendo.

Quali parole ti sentiresti di dire a una donna che viene da te confidandoti di aver abortito e di non darsi pace per questo?
Quel che dico a queste donne è di essere mamme. Se vengono a parlare a un prete, è perché sono distrutte per quel che hanno fatto. Spesso le pressioni esterne che inducono una donna a quel gesto sono così forti che lei non si rende pienamente conto di quel che sta per compiere. Dopo sì, ma è troppo tardi. E dunque? Si può cercare di recuperare il suo rapporto con il bambino, dargli un nome, parlargli con tenerezza infinita e sapere che la sua creatura, immersa nell’amore di Dio, non la giudica e non la condanna, ma da questa sfera d’amore le comunica vita per risanare la ferita. Certo, la donna non può rimediare a quel che ha fatto, ma può come riscattarlo, con un nuovo rapporto d’amore tenero.

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